I libri belli si trovano per caso, oppure sono loro a trovare noi. Ricordo il giorno in cui ho comprato La canzone del ritorno di David Trueba (Feltrinelli 2017); ero a Pavia, in un’incantevole libreria indipendente chiamata Il Delfino. Lo ammetto, conoscevo Trueba solo come regista. “Non sapevo scrivesse anche romanzi”, confidai al libraio, e tanto bastò per convincermi a comprarlo.
Sono passati alcuni mesi prima che mi decidessi a iniziarlo. Questa volta, a spingermi a tirarlo giù dallo scaffale è stato il titolo. Forse perché sto traslocando per tornare, forse perché tutti quando siamo spaventati cerchiamo la nostra canzone del ritorno.
David è un musicista, uno di quelli che ha fatto della musica l’unica ragione di vita. Ha due figli giapponesi avuti dalla sua compagna giapponese, Kei. Suo padre, uno di quelli severi, diretti e incontentabili, è morto di recente. Il rapporto tra padre e figlio non è mai stato sereno, ma David sente di dover onorare il genitore scomparso, ha bisogno di un gesto simbolico per riavvicinarsi a lui, o forse a se stesso. Inizia così il suo viaggio a bordo di un veicolo molto particolare: un carro funebre che trasporta la salma di suo padre. La ragione del viaggio è quella di seppellire il padre nel paese in cui è nato, un piccolissimo villaggio di contadini in cui David ha trascorso le più torride e sconclusionate estati della sua vita; ma le lunghe distese di campi tra Madrid e Tierra de Campos diventano un eccezionale espediente per ripercorrere tutte le strade percorse da David, tutti i bivi, le incertezze, gli ostacoli e gli amori.
Un romanzo dalle note sincere e dal sapore aspro delle confessioni. David è un Barney Panofsky tutto spagnolo; Trueba sa cogliere la stessa drammatica ironia dell’opera di Mordecai Richler, dandole il però gusto autentico della sua voce. Di quei libri da leggere con una matita in mano, denso com’è di riflessioni profonde, autentiche e delicate sulla vita, sull’arte e sull’amore. Una lettura assolutamente consigliata a chi crede che anche tornare sia in qualche modo andare.
(Molto tempo dopo aver comprato il romanzo, ho scoperto che il Trueba di cui parlavo al libraio di Pavia non era lo stesso Trueba autore del libro: stesso cognome, entrambi registi... insomma, un malinteso da manuale. Uno di quei momenti imbarazzanti che David avrebbe amato raccontare nel suo romanzo!)
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