“E senti, che ti volevo dire?”
C’è sempre qualcosa che bisogna dire. Qualcosa che bisogna fare. Qualcosa che bisogna dimostrare.
Oggi non sappiamo più sopportare la noia, l’attesa. Siamo in un’epoca di sfrenata irrequietezza, in cui la maggior paura è l’immobilismo.
Ed ecco allora il disperato bisogno di uscire tutte le sere, di andare alle feste migliori, alle serate più inn. Un male dei nostri giorni, potremmo dire. Eppure non siamo i primi. Anche Encolpio, Ascilto e Gitone, pur di non stare a casa senza far nulla, si costringono ad andare ad una festa.
Stiamo parlando del Satyricon, l’opera dell’autore latino Petronio, che torna a vivere dal 4 al 6 luglio nello spettacolare Teatro Grande di Pompei nella terza rassegna drammaturgica nata dalla collaborazione del Teatro Stabile di Napoli Teatro Nazionale e del Parco Archeologico di Pompei.
Il Satyricon, dicevamo, è portato in scena dal regista Andrea De Rosa per rappresentare quella decadenza che Petronio vedeva nella romanità della sua epoca e che possiamo noi vedere nella società attuale. Come afferma Francesco Piccolo, riscrittore dell’opera, “la cena di Trimalcione sarà come è o come dovrebbe essere la vita (mondana e non): stanca, ripetitiva, piena di luoghi comuni e di rapporti superficiali o ipocriti”. Tutto ciò si impone agli occhi ad una festa, ovvero “il rito collettivo che ci rende tutti uguali, il momento in cui siamo una vera comunità; e, contemporaneamente, il più grande spreco di tempo della nostra vita, seducente e superficiale, vuoto e irrinunciabile. Ciò che impesta e che ammorbidisce lo slancio vitale.”
Ed ecco dunque che lo spettacolo è tutto ambientato durante una festa, in cui i vari personaggi/invitati esprimono la vuotezza dei loro pensieri in un fiume di parole stantie, trite e ritrite, ma che si sono imposte come stereotipo collettivo. E più si parla, più le parole perdono di significato e profondità, ma c’è un’irrequietezza di fondo che spinge a parlare ancora e ancora e ancora.
Irrequietezza che si manifesta anche a sul piano fisico, con i personaggi che si muovono incessantemente sulla scena, ballano, camminano, si alzano e siedono e rialzano.
Tra i vari ospiti spicca Fortunata, la moglie di Trimalcione. Lei non dialoga con gli altri personaggi, lei li racchiude tutti in se stessa. Per questo i suoi discorsi sono il non plus ultra del perbenismo, del vuoto e dello stereotipo: è ovviamente vegana, critica le multinazionali, si cruccia dei bambini malati, si duole dello spreco alimentare. Eppure non fa che starsene sdraiata ad una festa.
A distinguersi è, invece, Trimalcione, l’ospite della festa, che, nella sua rozzezza, esprime pensieri sinceri al punto da risultare comici (critica i finti intellettuali, i finti comunisti, afferma onestamente che a lui interessano “li sordi”, nota le “fregnacce” che gli altri continuano a ripetere e ripetersi), ma che almeno dimostrano una certa consistenza.
Uno spettacolo dunque notevolmente interessante, con una scenografia d’impatto (un pavimento e un muro d’oro su cui spicca un water su piedistallo come fosse un trono) e un’eccellente interpretazione di tutti gli attori. Unico neo è forse la durata che risulta eccessiva per una pura rappresentazione quasi fotografica della società odierna e che risente della mancanza di una vera e propria trama, con sviluppi ed evoluzioni di una vicenda.
Anche il finale, con l’affermazione speranzosa “si può cambiare”, risulta forse un po’ troppo sbrigativo.
Link all'immagine di copertina: https://www.napolitoday.it/cultura/pompeii-theatrum-mundi-giugno-2019.html
Foto di: Annachiara Giordano