È oramai da Giugno che per oltre 73 aziende e 3.300 dipendenti del Regno Unito è partita la sperimentazione di una delle forse più significative forme di innovazione del mondo del lavoro di questi anni: la settimana lavorativa da 4 giorni.
Se già nel 1930 il buon John Maynard Keynes prevedeva che una riduzione dell’orario lavorativo grazie al progresso tecnologico sarebbe stata possibile entro “un paio di generazioni”, il primo traial di introduzione di una settimana lavorativa da quattro giorni (della quale si sente parlare ormai da anni) risale all’Islanda del 2015.
I risultati, in termini di riduzione dello stress e miglioramento del bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata, senza comportare alcun calo di produttività per le aziende nella sperimentazione islandese sono ormai una vicenda nota.
Ed è proprio sulla scorta di questi risultati che quest’anno anche Londra ha deciso di percorrere, , su pressione del movimento “Four days global” che ha promosso l’iniziativa in varie aziende, la via della settimana lavorativa breve, con risultati promettenti.
Nel primo rapporto (per quanto parziale poiché redatto dal movimento 4 Days stesso) risulta un incremento dei ricavi per le aziende dell’8% circa, oltre ad un sostanziale miglioramento della qualità della vita per i dipendenti come già visto nel caso Islandese. E se ad oggi attendiamo i risultati dello studio in corso dell’Università di Cambridge, a che punto siamo in Italia?
Ebbene è proprio da questo gennaio che, secondo quanto annunciato recentemente, anche nel bel paese arriveranno sperimentazioni strutturali di settimana lavorativa corta.
L’apripista è Intesa San Paolo che proporrà ai suoi dipendenti la possibilità della settimana lavorativa da quattro giorni (ridistribuendo l’orario di lavoro in nove ore giornaliere, e riducendolo da 37,5 ore settimanali a 36) senza alcuna variazione sullo stipendio.
Il giorno libero, nella proposta dell’azienda, non sarebbe fisso ma scelto del lavoratore (previa organizzazione e concertazione con le necessità aziendali).
La proposta (l’adesione è su base volontaria), che include anche la possibilità per i dipendenti di lavorare in smart working fino a 120 giorni l’anno, pur rientrano nel quadro dei contratti collettivi nazionali di settore, non trova tuttavia l’accordo dei sindacati.
Come riporta Il Sole, infatti, Fabi - First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca e Unisin, nonostante cinque mesi di trattative con la banca, non sono riuscite a trovare un accordo poiché l’azienda non ha voluto estendere queste possibilità anche ai dipendenti delle filiali fisiche, né è riuscita a individuare un accordo con i sindacati circa gli strumenti tecnici atti a garantire il diritto alla disconnessione durante lo smart working.
Al netto del caso di Banca Intesa, resta tuttavia positiva la posizione generale della Cgil riguardo l’introduzione della settimana lavorativa breve.
Il segretario generale del sindacato Maurizio Landini ha infatti espresso il suo sostanziale accordo ad incentivare la sperimentazione anche in Italia in un’intervista a “La Stampa” del nove gennaio di quest’anno.
Landini affronta il tema parlando della manovra di bilancio, ma estendendo il discorso più in generale della situazione del lavoro in Italia. Fiscal drag, precariato, eccessiva tassazione del lavoro dipendente e delle pensioni, part-time involontari, partite iva, disoccupazione giovanile e precarizzazione attraverso i lavoratori delle cooperative che giocano al massimo ribasso. Ma anche la mancanza di un salario minimo, e dell’aggiornamento dei contratti collettivi nazionali e l’estensione delle garanzie previste da questi ultimi ai lavoratori autonomi, rappresentano i principali problemi del mondo del lavoro in Italia denunciati dal sindacalista.
E come dissentire se si considera che in Italia, dati l’Istat alla mano, oltre tre milioni di lavoratori hanno un contratto a tempo determinato e che, nonostante l’inflazione galoppante, il nostro è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti anziché aumentare negli ultimi 20 anni.
Questo senza considerare come, secondo l’Eurostat, l’Italia rappresenti il fanalino di coda d’Europa per tasso d’occupazione (è impegnata secondo le rilevazioni di ottobre 2022 il 60.3% della popolazione italiana in età da lavoro, contro un tasso europeo del 70%) .
I numeri certo poi non consolano se si si considera che, rilevazioni l’Istat di questo gennaio, la disoccupazione tra i giovani è al 25,3 %, e il tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni arriva al 35%, (con un aumento tra le donne e chi ha meno di 50 anni).
Insomma, per quanto la settimana lavorativa breve rappresenti un traguardo importante, che può beneficiare tanto i lavoratori quanto le imprese ,i suoi limiti restano evidenti, e tanto lavoro rimane ancora da fare per migliorare la situazione occupazionale e retributiva, e quindi la vita di tanti italiani.