La fase politica in cui ci troviamo è tra le più critiche di cui abbiamo memoria.
Le elezioni del 25 settembre 2022 hanno dato un risultato netto e, nella storia repubblicana, inedito nei termini in cui si presenta: il Paese è infatti ora governato da una destra estrema, liberista e antipopolare che, per uno di quei casi fortuiti che assumono grande forza simbolica, è entrata a Palazzo Chigi proprio a pochi giorni dal centenario della marcia su Roma.
La nuova maggioranza, già a partire dall’elezione dei Presidenti delle due Camere, ha messo bene in chiaro che non intende cedere di un millimetro rispetto al proprio posizionamento, e l’enfasi messa su tentativi di riforme istituzionali quali l’autonomia differenziata e il presidenzialismo confermano che ci sono rischi reali di smembramento del Paese.
Questo scenario drammatico non dipende da un destino cinico e baro, né è soltanto causato dalla divisione sciagurata nel campo del progressismo, ma è l’effetto finale di oltre un quindicennio di scelte politiche viziate da errori e omissioni.
Il campo del progressismo italiano, per poter contrattaccare, ha bisogno di un totale ripensamento.
È per questi motivi che il congresso costituente lanciato dal Partito Democratico, che vede l’adesione di Articolo Uno, Demos e di svariati indipendenti, si configura come un passaggio che non può essere trascurato.
La cronaca politica ci dice, però, che questo processo si sta aggrovigliando: da un lato c’è sì un comitato che sta discutendo la stesura di una nuova “carta dei valori”, un documento fondativo che dovrebbe costituire la base valoriale del nuovo partito. Dall’altro, però, questo lavoro incontra svariate resistenze: sono in molti che si aggrappano all’identità fondativa del PD, senza comprendere però che il fallimento di tale progetto risiede proprio nell’insostenibilità di quell’architettura.
Sta di fatto che, nonostante la necessità urgente di una ricostruzione dalle fondamenta, la corsa verso le candidature a segretario, la riproposizione del modello delle primarie aperte e l’assenza di modifiche al bizantinismo e plebiscitarismo delle procedure interne, rischiano di rendere questa fase nient’altro che l’ennesima conta interna, che lascerebbe poi l’area del socialismo democratico in Italia – quella in cui il PD è nonostante tutto il maggior soggetto politico – ancora incapace di riconnettersi con la società e rilanciare la propria azione.
Sarebbe molto più utile, al posto della corsa dei nomi, che venissero sospese le candidature e le campagne per la segreteria nazionale del partito; ciò permetterebbe di concentrare il dibattito congressuale sul documento che è in corso di stesura da parte del comitato costituente, la “carta dei valori” del nuovo partito. Non sappiamo ancora cosa ci sarà in questo documento, ma c’è da confidare che venga imperniato su di una rinnovata centralità del pubblico e della politica, a cui spettano il governo dei processi economici e l’indirizzo strategico di quelli produttivi. La stagione del liberismo, che ancora qualcuno difende, è ormai stata condannata dalla Storia: dal Covid-19 che ha trovato argini solo quando il governo del pubblico ha dato priorità alla salvezza delle vite umane, dal PNRR che segnala l’urgenza di una transizione che non può autoregolarsi ma va inevitabilmente governata in un quadro consensuale, e dalla crisi climatica incipiente.
E poi, oltre al piano delle idee, c’è quello della vita interna, burocratica, che ogni soggettività politica ha necessità di regolare. È qui che c’è da fare una delle più nette cesure con il passato: non è più sostenibile l’idea di un partito dai confini permeabili, soggetto alle ondate delle mode politiche, che non valorizza e rafforza i propri spazi di discussione interni. Non si può più rimandare l’abolizione delle cosiddette primarie
aperte, ricostruendo dunque una forma partito che riconosca la centralità degli iscritti nei processi deliberativi.
Infine, c’è un elemento di rappresentazione che non si può trascurare: se la sconfitta del 25 settembre nasce anche da una gigantesca crisi di credibilità, il nuovo partito non può essere la riproposizione dell’esistente neanche in termini simbolici. Non è più il tempo di brodini insapori: in un’epoca così complessa, servono identità chiare, un nuovo nome e un nuovo simbolo, che aiutino a ri-radicare il soggetto da ricostruire all’interno del campo del socialismo democratico, senza ambiguità di sorta.
Lavoro e pace, questa è la radice della sinistra: e, come ebbe a scrivere uno che aveva la vista lunga, “anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all'opera, ricominciando dall'inizio”.