Fotografia & grafica

Fotografia & grafica (213)

La Ford è in moto. Chi la guida corre per quelle larghe strade della Route 66, calcando l’asfalto in attesa di fermarsi quando intacca in qualcosa d’interessante, o in qualcosa di “normale” da rendere “straordinario”.

È il periodo della grande crisi, un momento buio per l’America. Le sue strade sono piene di povertà. La Nazione ha bisogno di raccontare; c’è necessità di mostrare, di vedere la realtà delle cose e Dorothea Lange, a bordo della sua auto, con al collo le sue macchine fotografiche, lo fa con uno sguardo curioso, determinato e a volte anche un po’ sfacciato.

 

Dorothea Lange nasce a Hoboken, nel New Jersey il 25 maggio del 1895 da genitori di origine tedesca, Heinrich Martin Nutzhorn e Joanna Lange. 

Nel 1902 contrae la poliomielite che le rende claudicante, caratteristica che farà parte della sua vita non solo fisicamente, ma anche mentalmente, spingendola sempre a cercare ostacoli da superare, a vagare e a proseguire con determinazione. 

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Nel 1907 il padre abbandona moglie e figli, senza mai più tornare. Ciò segna profondamente Dorothea tanto da spingerla a cambiare il suo cognome con quello della madre, cancellando così la figura paterna dalla sua vita.

Da questo momento in poi, la madre Joanna, con i due figli si trasferisce nel Lower East Side di New York dopo aver trovato lavoro come bibliotecaria. 

 

Dorothea è curiosa, osserva, guarda le persone attorno a lei e il fermento della città e un bel giorno decide di voler diventare fotografa. Tra il 1912 ed il 1913 lavora come assistente presso lo studio di Arnold Genthe, che le regalerà la sua prima macchina fotografica, e nel 1916 comincia la sua carriera da ritrattista, quando viene assunta in uno studio della Quinta strada come fotografa e tecnica di laboratorio. 

 

Ma c’è qualche spinta dentro di lei che non riesce a tenere a bada. La giovane fotografa è un turbinio di curiosità, mossa dalla necessità di trovare sempre qualcosa di nuovo, ed è così che nel 1918 arriva a San Francisco dove trova lavoro in un negozio di forniture fotografiche. Quest’occupazione le permette di entrare con forza, ma senza arroganza, nelle vite di chi porta a sviluppare i propri rullini.

È proprio nell’intimità di queste persone che forse comincia a trovare ispirazione per quel linguaggio intimo e familiare che caratterizzerà le sue opere successive, quando la Lange percorrerà l’America, in un periodo che va dalla grande crisi del ’29 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

 

Nel 1919, a soli ventiquattro anni apre il suo studio fotografico sempre a San Francisco, specializzandosi in ritratti, grazie al finanziamento di un giovane e ricco fotoamatore che vede le sue foto e se ne innamora. Qui, nello stesso anno, conoscerà il suo primo marito, Maynard Dixon, di vent’anni più grande, con cui convola a nozze nel 1920 e da cui avrà due figli. Il matrimonio durerà fino all’inizio degli anni ’30. 

 

Nel 1929 però la Grande depressione arriva prepotente: l’intero Paese ne è colpito e i livelli di povertà crescono a dismisura. La Lange comincia così a muovere la sua attenzione verso la strada e la realtà quotidiana delle persone che non godono di una vita agiata. A questo punto, il mondo attorno a lei entra con foga nella sua vita e non è facile farlo uscire e, probabilmente, non è neanche ciò che lei desidera. Abbandona così la sua carriera da ritrattista per raccontare la condizione delle vittime della Depressione. 

 

I suoi lavori cominciano a conquistare i maggiori esponenti della fotografia contemporanea e non solo. Nel 1934 le sue foto arrivano a Paul S. Taylor, professore di Economia dell’università di Berkeley, che le chiede di poterle usare per una sua pubblicazione; la fotografa risponde entusiasta. Taylor è un riformatore, studioso della produzione agricola e quando nel 1934 riceve dallo Stato della California l’incarico di stilare un resoconto della crisi, lui fa in modo che la Lange vada con lui. Dopo sedici anni, Dorothea chiude lo studio e parte. Da qui comincia un sodalizio, non solo lavorativo, ma anche sentimentale che spingerà la Lange a chiedere il divorzio da Dixon nel 1935 per sposare Taylor. 

La sua nuova vita si dirama così tra le strade dei mezzadri, fotografando l’America rurale, un mondo lontano da lei, in un modo intimo, ma a tratti anche snob (La Lange proveniva comunque da un contesto urbano e borghese). È proprio durante questi anni che realizza una delle sue opere più famose, ma non priva di controversie: il ritratto di Florence Thompson, Migrant Mother. Questa donna diventerà immagine iconografica della situazione americana di quegli anni, ma a suo scapito. Nel 1960, anni dopo il successo non voluto da parte del soggetto di quella foto, Lange decide di scrivere un articolo raccogliendo i dettagli di quella giornata oramai lontana: racconta che quella famiglia aveva dovuto vendere i propri pneumatici, mentre i bambini si nutrivano di verdure ormai marce e di uccellini uccisi a sassate. Ma le parole non sempre rispondono alla realtà. Quella donna, infatti, racconterà in seguito che lei e la sua famiglia erano semplicemente in viaggio e avevano fermato la loro auto lungo la strada a causa di un guasto al radiatore; il marito si era allontanato per farlo riparare, mentre lei era rimasta lì con i bambini. Inoltre, Florence, era di sangue cherokee e dunque un’indiana d’America, per cui per lo Stato e le classificazioni ufficiali, una “non bianca”.Lange-MigrantMother02mod

 

Questo evento mostra come le foto si carichino di una forza incredibile, andando incontro al pericolo di essere fraintese: le immagini, così come le parole hanno un peso e devono essere usate con parsimonia. La Lange era consapevole di tale pericolo, per questo portava sempre con sé un taccuino su cui annotare i dettagli di quei momenti e le parole che avrebbe poi usato per descrivere le sue fotografie. Fu solo in quel caso, quando incontrò Florence, che si limitò a fotografare sei o sette foto, salutando e andando via, senza neanche chiedere il suo nome.

 

Nonostante questo intoppo, la carriera di Lange si riempie di riconoscimenti. La sua capacità e determinazione le permettono di essere la prima donna insignita della Guggenheim Fellowship, proseguendo sulla strada delle comunità rurali, che però abbandona per seguire l’esodo forzato dei cittadini giapponesi verso i centri di raccolta (sorte che non toccherà a tedeschi e italiani), in seguito all’attacco di Pearl Harbor.

 

Dal 1945 le sue condizioni di salute però peggiorano, la sua attività rallenta, ma non si ferma. Nel 1947 collabora alla fondazione dell’agenzia Magnum e nel 1952 fonda la rivista Aperture, insieme ad altri suoi colleghi, tra cui Ansel Adams e Barbara Morgan.

Nel 1954 si unisce allo staff di Life con cui collaborerà fino all’inizio del decennio successivo. 

 

Dorothea Lange muore nel 1965, all’età di settant’anni in seguito ad un cancro alla trachea, poco prima dell’inagurazione della retrospettiva a lei dedicata al MOMA di New York, la prima interamente incentrata su una donna fotografa. 

 

 

link alle immagini usate:

 

https://dorothealange.museumca.org/image/child-and-her-mother-wapato-yakima-valley-washington/A67.137.93404/

 

https://dorothealange.museumca.org/image/dorothea-lange-in-texas-on-the-plains/A67.137.34102.2/

 

https://dorothealange.museumca.org/image/migrant-mother-nipomo-california/A65.104.2/

 

 

 

 

 

Robert Doisneau, considerato un esponente della cosiddetta fotografia umanista, è stato un fotografo francese del '900, sicuramente tra i più significativi.
 

Nato nel 1912 a Gentilly, alla periferia sud di Parigi, farà dei suoi luoghi natii il suopalcoscenico e solo verso la fine della sua vita si trasferirà a Montrouge, dove poi morirà nel 1994. Tra il 1925 e il 1930 studia incisione e litografia all'École Estienne di Parigi e dopo gli studi,nel 1929, lavora come grafico e disegnatore presso L'Atelier Ullman e inizia a fotografare professionalmente.In un contesto parigino in forte fermento culturale, Doisneau, nel1931 lavora come assistente del fotografo pubblicitario André Vigneau, dove incontra poeti e artisti d'avanguardia (Prévert sarà, infatti, uno dei suoi più grandi amici). Il contatto con l'ambito pubblicitario gli permette di diventare fotografo ufficiale delle officine Renault di Boulogne-Billancourt per poi passare a lavori da freelance. Nel 1939 conosce Charles Rado, fondatore dell'agenzia Rapho, di cui, nel1946 Doisneau diventerà membro attivo e lo rimarrà anche quando Cartier-Bresson gli offrirà un posto nell'agenzia Magnum.Doisneau pubblica le sue foto su riviste di notevole spessore, comeVogue, ma uno degli eventi più significativi sarà sicuramente il rapporto con la rivista americana Life. Gli americani, infatti, commissioneranno al fotografo una serie di scatti di "vita vera" e li promuoveranno ai lettori come tali, descrivendolo come un fotografo in grado di catturare attimi di quotidianità vissuti nella fugacità del momento,ma la realtà è che Doisneau mette in posa i suoi attori, ricreando le scene come un regista di teatro.

 

Doisneau 1

 

Famosissimo è lo scatto che ritrae i due giovani amanti ai piedi del municipio di Parigi,mostrata come l'abilità di un fotografo di entrare per un secondo nell'intimità di una giovane coppia che sboccia o che trova la sua realizzazione in un'Europa post-bellica, ma altro non si tratta che di una scena ricreata con una giovane attrice ed il suo ragazzo che agiscono sotto direttive.

 

Doisneau 2

 

Questa foto, che otterrà un incredibile successo e di cui ancora oggi se ne parla, guardandola come uno degli esempi più romantici ed emozionanti di "fotografia dal vero", sarà accompagnata da un processo dove i due amanti avrebbero richiesto un risarcimento in denaro, rifiutato dalla corte stessa che darà ragione al fotografo che sarebbe riuscito a dimostrare, non si sa esattamente come, di aver scritturato loro ed altri attori per ulteriori "messe in scena".


Si potrebbe quindi dire che le foto di Doisneau sono finte? Che le emozioni che un individuo prova guardando quelle foto non sono forse vere? In che modo la consapevolezza di come qualcosa sia stato realizzato può influire sull'emozione che si prova osservandola? Non è forse vera quella stessa emozione?


Perché non nutrirsi di essa e basta?


Doisneau ha creato opere che sono entrate nella quotidianità e nel cuore di coloro che si rivedono in esse. È riuscito ad immegersi, ed immergerci, in un territorio che conosceva a fondo e anche a ricrearlo in modo estremamente naturale, forse anche grazie a quella incredibile conoscenza che aveva di esso, essendone un membro attivo e partecipante.


Indipendentemente da come sono state realizzate le foto di Doisneau trasudano di vita umana, tanto da essere definito un esponente di un "profondo umanesimo".

 

"All art is quite useless".

 

Tutta l'arte è perfettamente inutile: non sono parole di chi scrive, per carità! A pronunciarle, anzi a scriverle fu Oscar Wilde, alla fine della prefazione di The Picture of Dorian Gray (1890), vero e proprio manifesto dell'estetismo inglese. Certo, sono passati più di 130 anni da allora, ma, a ben vedere la lezione del poeta irlandese è ancora valida: parafrasando A Defence of Poetry di Percy Bysshe Shelley, un altro gigante della letteratura in lingua inglese, una grande opera d'arte è come una fontana traboccante di saggezza, capace di parlare in maniera differente, ma egualmente potente a ogni epoca e generazione, come scopriremo.

 

Recentemente, l'artista vomerese Ruben D'Agostino, già noto per l'opera di riqualificazione Tetris Urbano in via Massimo Stanzione, ha sottoposto alla V Municipalità un progetto riguardante la parte alta dei gradini Cacciottoli che prevede la realizzazione di un murale del Joker danzante di Joaquin Phoenix nella celebre scena della scalinata. Il progetto, attualmente in esame, ha incontrato le opposizioni di alcuni rappresentanti delle istituzioni e di una parte dei cittadini, non del tutto a loro agio con l'idea che un criminale possa essere immortalato, e, in un certo qual modo, magnificato.

 

Joker 2

 

Tralasciando per un attimo l'assoluta bellezza della sequenza e il fatto che essa sia già entrata nella storia del cinema, l'idea che D'Agostino intenda glorificare o giustificare le azioni di Arthur Fleck sembra del tutto peregrina, come egli stesso ha affermato. D'altronde, basterebbe aver semplicemente prestato attenzione alla pellicola di Todd Phillips per comprendere come essa, lungi dall'essere una celebrazione, si configuri, piuttosto, come una drammatica discesa agli inferi. A proposito della scena in questione, il direttore della fotografia Lawrence Sher in un'intervista a Variety nel 2019 affermò come «the movie is a lot about dichotomies and about two sides of our own self. We are all good, and we all have the potential to be bad».

 

Se, a tutti i costi, siamo costretti a suggerire una chiave di lettura a ciò che nasce come semplice celebrazione della bellezza, che almeno sia quella della solidarietà: tendere la mano, mettersi nei panni dell'altro, comprendere coloro che soffrono. Questo perché la discesa di Arthur Fleck nell' "abisso Joker" non si sarebbe verificata in un mondo, magari non perfetto ma in cui la malattia mentale venisse vista per quello che è: malattia, appunto, e non stigma. Allo stesso modo, se ci sforzassimo di vedere il bicchiere pieno, useremmo il nostro potenziale per qualcosa di buono, ritornando alla dicotomia di cui parlava Sher, e – chissà! – anche attraverso l'arte, e le sue innumerevoli declinazioni, eviteremmo che tanti potenziali Arthur Fleck si trasformino in altrettanti Joker.

 

Joker 3

 

Tralasciando, infine, come altri iconici villains siano apparsi sui muri di mezzo mondo (da Hannibal Lecter a Alex DeLarge, da Norman Bates alla Malvagia Strega dell'Ovest senza che nessuno abbia interpretato tali opere come apologie del cannibalismo o della stregoneria), può rivelarsi produttivo chiudere il cerchio con Wilde, il quale sottolinea come i libri non siano morali o immorali, ma solo scritti bene o scritti male. Allo stesso modo, non sarebbe una cattiva idea giudicare l'opera di D'Agostino tenendo presente un unico, infallibile parametro.

 

La bellezza.

 

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Martine Franck fotografata da Henri Cartier-Bresson, Paris, 1975 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos

 

“La macchina fotografica è in se una frontiera, un tipo di barriera che bisogna costantemente abbattere per potersi avvicinare in questo modo il più
possibile al soggetto. Facendo questo, si rischia di oltrepassare i limiti; c’è un senso di rischio, di andare oltre, di diventare eccessivo, di voler essere

invisibili.”

Martine Frank sulla fotografia.

Nata ad Anversa, in Belgio, ma cosmopolita: passa la sua adolescenza tra New York, Arizona e Inghilterra. Si laurea in Storia dell’arte frequentando
prima l’università di Madrid, dal 1956 al 1957, per poi passare all’Ecole du Louvre di Parigi, tra il 1958 e il 1962, con una tesi sull’influenza del Cubismo
nella scultura. Dopo gli studi si rende conto che la carriera di critica non fa per lei: non vuole limitarsi a conoscere le immagini, lei vuole darvi vita. È così che comincia la sua carriera in ambito fotografico.
Nel 1963 diventa assistente di Eliot Elisofson e di Gjon Mili nel laboratorio di Time-Life e dopo un anno di apprendistato comincia la sua carriera di
fotografa, sotto anche suggerimento del capo redattore di Life di Parigi.
Lavorerà in giro per il mondo, tra India, Cina e Giappone, e diventerà poi Martine Franck fotografata da Henri Cartier-Bresson, Paris, 1975 © Fondation Henri Cartier-Bresson /
Magnum Photos fotografa freelance per agenzie come Fortune, The New York Times e Vogue

oltre lo stesso Life. Nel 1965 collaborerà anche come fotografa a Le Théâtre du Soleil. Sono gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, Life è in crisi e Martine si
avvicina al gruppo di giovani fotografi dell’agenzia Vu, diretta da Pierre Fenoyl, ma ciò che lei e i suoi colleghi cercano è qualcosa che ripercorra le strade della Magnum Photos e così, assieme a Guy Le Querrec, Richard Kalvar e altri, fonda Viva, un’agenzia-cooperativa,
che nasce nel 1972 a Parigi. Da qui la necessità di raccontare la società che cambia.
Così può dare mostra di sé, della sua necessità di raccontare le storie, le persone, scegliendo di farlo con un distacco che
non è mai emozionale.
Martine entra in contatto con i soggetti ritratti, con quella timidezza che le permette di dare mostra
dei suoi attori, riuscendo a far emergere la loro vita dai suoi obiettivi, senza mai essere invadente.

Martine Frank

©Martine Frank/ via Pinterest https://www.pinterest.it/pin/232498399483730580/

 

 

Purtroppo Viva si scontra con le esigenze di mercato e nel 1981 è costretta a chiudere. Da qui entra in contatto con il mondo Magnum e, dopo
una candidatura effettuata nel 1980, diventa membro effettivo tre anni dopo.
Una donna elegante e timida che è riuscita a vivere di vita propria nonostante fosse sposata con Henri Cartier-Bresson, ancor prima di entrare
a far parte dell’agenzia. Martine si è fatta conoscere come Martine. Le sue foto sono cariche di storia: quella raccontata con rispetto. Riesce ad entrare e
muoversi con dolcezza all’interno di spazi e dimensioni che, di norma, non le  appartengono.

 

Entra nei microcosmi sociali, come quelli dei monasteri buddisti, dove racconta dei giovani Tulkus, riconosciuti come reincarnazione
dei grandi Lama del passato.
Martine Frank documenta la realtà e la fugacità del tempo: storie che si sa essere destinate a finire, perché ammettiamolo, tutto lo è, e lo fa con
malinconia, ma allo stesso tempo con bellezza e dolcezza. Piccoli momenti che vengono fermati dalla camera, assieme alle emozioni del caso, per poi
tornare a riprendere il suo corso.

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Avete presente quel momento in cui sembra che tutto si fermi, ma il mondo
intorno a voi continua a correre veloce? Immaginate di rivedere quel
momento su una foto e di percepirne a pieno la sensazione: questo è ciò che
accade quando si ha davanti agli occhi una foto di Gianni Berengo Gardin.
Nato a Santa Maria Ligure nel 1930, Gardin definirà sempre Venezia come
sua città natale: sua madre partorì in Liguria solo perché a quel tempo i suoi
genitori si trovavano lì in vacanza. E sarà proprio Venezia uno degli elementi
fondamentali della sua carriera fotografica, che, in tal caso, diventa spesso
anche denuncia: Gardin aderisce, infatti, ad un progetto che si schiera a
sfavore dell’entrata nel canale delle navi da crociera. In un’intervista
rilasciata al Corriere della sera, il fotografo afferma di aver fotografato quelle
navi principalmente a causa dell’inquinamento visivo che “causavano questi
bestioni enormi”
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Ma i problemi legati a questa situazione sono ben
altri, come il fatto che il loro ingresso nella laguna provocano degli
spostamenti dei fondali su cui poggiano le palafitte che reggono la città
stessa.
 
Ovviamente
non solo Venezia, ma anche i “baci rubati” in una Parigi che si contrapponeva
 
IMG 4565
 
all’Italia dei baci vietati dei tempi di un giovane Gianni, ma anche gli scatti
che mostrano il tema straziante dei manicomi negli anni ’70 - un reportage,
Morire di classe, con l’aggiunta dei testi di Franco Basaglia, che apriva gli
occhi dello spettatore su situazioni nostrane che fino ad allora non erano mai
state mostrate - fanno parte dell’incredibile portfolio del fotografo.
 IMG 4661
 
Così Berengo Gardin, con un archivio di circa un milione ed ottocento scatti,
diviene uno dei più grandi fotoreporter italiani, acclamato a livello nazionale
ed internazionale, spesso paragonato ad Henri Cartier-Bresson, ferma gli
istanti, riesce a rievocare nelle sue foto il movimento, la gioia, la tristezza: i
suoi scatti sono veri e propri contenitori di ciò che mostrano.
Si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma è sempre un po’ difficile, se non
futile, quando si ha a che fare con personalità che, come lui, di sé hanno già
scritto attraverso le
loro opere.
Per capire Gardin
ed apprezzarlo,
bisogna entrare nei
suoi racconti e
osservare!
 
Immagini di Foti D.

Non c’è molto da dire, se non che la nuova campagna primavera/estate 2020 di Gucci, concepita da Alessandro Michele e Christopher Simmonds e diretta da Yorgos Lanthimos, è essenziale ed essenzialmente geniale. I protagonisti? I cavalli.

Scenari paradossali dove la figura umana passa in secondo piano, scavalcata dai colori e dai lustrini degli abiti e dall’eleganza – perché sì, qui di eleganza si sta parlando – di un cavallo. Una decostruzione dell’uomo, come il più abile Bourdin potrebbe fare e che forse parte direttamente da quell’immaginario; una campagna eclettica, si potrebbe dire ascetica, che immerge fortemente il marchio in queste “nuove” frontiere della moda.

   Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson accompagna le immagini (il video qui): un’hostess che accoglie e saluta i passeggeri di un aereo; due donne a passeggio su un cavallo tra le auto ferme; un’altra che esce da un “Foodmarket” e arriva in auto, dove ad aspettarla c’è il suo amico-cavallo.

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Un tempo indefinibile, quasi a testimoniare il carattere trascendentale del marchio stesso: Gucci non appartiene a nessun tempo, a nessun luogo e a nessuna categoria; volti particolari, bellezze non canoniche, diastemie che aiutano a ridefinire i nuovi canoni di bellezza, declassando quella stereotipata dei primi due decenni degli anni 2000: una rivoluzione che è cominciata e che coinvolge la moda a pieno – tanto da spingere Victoria a non far sfilare più i suoi angeli- dove Gucci mostra di essere al di sopra delle convenzioni, temporali ed estetiche, sfidando la banale realtà fenomenica; Gucci può essere chi vuole.



Link alle foto: https://www.gucci.com/it/it/st/stories/advertising-campaign/article/spring-summer-2020-campaign

copertina

 

Inge Morath: donna dalle capacità letterarie elevate, incredibile viaggiatrice, poliglotta, ma soprattutto la prima fotografa ad entrare nel mondo MAGNUM, assieme a professionisti come Ernst Haas, Henri Cartier-Bresson e Robert Capa: personaggi che l'accompagneranno per tutta la sua vita.

 

Nata nel 1923 a Graz, in Austria, Morath studia linguaggio a Berlino. Oltre il tedesco, sua lingua nativa, parlerà altre sette lingue; grazie anche a queste sue abilità linguistiche comincerà a lavorare come scrittrice, occupandosi degli articoli che accompagnavano le foto di Haas o Capa.


Ma dal 1951, a Londra, Inge comincerà a scattare e nel 1955 diventa a tutti gli effetti membro ufficiale della fondazione. Da qui in poi la fotografa farà numerosi viaggi in giro per il mondo, anche in Europa e in URSS creando un portfolio fotografico senza eguali, dove riesce a catturare il "momento decisivo", come affermava Cartier-Bresson.


Momento decisivo sarà anche quello che permette alla Morath di scattare una delle foto più famose della sua carriera, legata inevitabilmente anche a fatti di vita personale: nel 1962, infatti, Morath sposerà Miller con cui rimarrà per tutta la vita. Nel 1960 farà da assistente ad Henri Cartier-Bresson sul set de Gli Spostati (The Misfits), film diretto da John Huston e sceneggiato da Arthur Miller, all'epoca marito di Marilyn Monroe, che aveva scritto quel personaggio basandosi proprio su di lei, ed è qui, nel Nevada, che durante un momento di pausa dalle riprese, la fotografa riesce a catturare una Marilyn solitaria, sfatta (se ci è concesso il termine) ed intenta a ripetere dei passi di danza: la delicatezza stessa dell'attrice, separata per un momento da quella femminilità prorompente che l'ha sempre accompagnata e che sempre lo farà nell'immaginario comune, traspare da questa foto, mostrandone un'umanità senza eguali, un'innocenza che la rende ancora più umana.


Foto di personaggi importanti tra Parigi e New York, reportage di viaggi, rappresentazioni di vita comune, non importa quale sia il soggetto, ma in ogni caso questa superba fotografa è riuscita ad immergersi all'interno di un mondo "maschile", dove vi erano nomi già fortemente affermati ed a far emergere la sua poetica, il suo sguardo, aprendosi al mondo, perché come lei stessa affermava, fotografare vuol dire fidarsi di ciò che si vede e mettere a nudo la propria anima.


Oggi le sue opere sono finalmente in Italia ed in mostra, dopo essere state esposte a Treviso e Genova, al Museo di Roma in Trastevere, fino al 19 gennaio 2020. La mostra, a cura di Marco Minuz, Brigitte Blüml-Kaindl e Kurt Kaindl, si divide in 12 sezioni e 140 immagini che ripercorrono la vita dell'artista: i suoi viaggi, la sua vita professionale raccontata dalle sue stesse mani e dallo sguardo che alcuni fotografi le hanno rivolto mostrati da una serie di ritratti della fotografa stessa.


Le sue fotografie sono penetranti, apparentemente semplici, ma con una profondità interiore che entra nello "stomaco" di chi le guarda, risalendo la schiena con dei brividi che suscitano nello spettatore un'ammirazione che potrebbe (e forse è proprio ciò che si vorrebbe) non finire mai. Una fotografia senza costruzioni esterne, ma per chi ha voglia, come ne aveva Inge Morath, di lasciarsi guardare e, allo stesso tempo, saper osservare.

 

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Museo di Roma in Trastevere
Piazza di S.Egidio, 1b, Roma (RM)

  Probabilmente ciò che ha caratterizzato maggiormente il mondo contemporaneo e che è entrato nelle vite di quei giovani ragazzi nati nel dopoguerra e che si è tramandato di generazione in generazione sono le pubblicità.

L’arte si muta, si sdoppia e si allontana dal culto mitico della copia “unica e originale” e nasce un nuovo tipo di arte, per tutti – o quantomeno per una buona parte della popolazione mondiale -, fruibile e accessibile, che probabilmente deve molto alla nascita della fotografia: si tratta della pubblicità. Slogan, immagini, musiche, simbologia e oggetti entrano nella testa degli individui divenendo dei capisaldi, come le pubblicità storiche della Coca-cola o i Caroselli in Italia –non dimentichiamoci delle pubblicità della Kodak con l’alieno Ciribiribì o quella storica della Tassoni, la stessa da sempre – e creando una cultura generale alla quale non si può – e forse non si deve – sfuggire.

A conquistarsi negli ultimi anni un ruolo di prim’ordine all’interno di questo mondo è John Rankin, che incarna, nella sua totalità, questa forma di arte. Fotografo e artista poliedrico, ha fondato giovanissimo, nel 1991, la rivista Dazed & Confused, dedicata alle novità ed alle nuove tendenze nell’ambito della moda e del costume - https://www.dazeddigital.com - e ha conquistato il mondo della pubblicità con la sua agenzia RANKIN.

 

   Rankin vive a Londra, con sua moglie, ma la sua arte arriva dappertutto e ora si trova ad Amsterdam, con una mostra, Naked, dall’11 novembre al 17 dicembre e a Milano, con la mostra From portraiture to fashion, fino al 24 febbraio 2020. Questa personale esposta alla galleria 29 ARTS IN PROGRESS di Milano segue un percorso piuttosto innovativo: intende ripercorrere un po’ tutte le varie fasi della sua fotografia e lo fa mutando ben tre volte in occasione degli eventi che si terranno nel mondo milanese in quel periodo: il Vogue Photo Festival, il Fashion Film Festival, a novembre, e la Milano Fashion Week di febbraio. Si è conclusa, infatti, da qualche giorno la prima fase della mostra, i ritratti, per entrare ora nel vivo delle sue opere più concettuali, per poi giungere alle opere più strettamente legate all’ambito della moda.

   Rankin riesce col suo lavoro a dare alla pubblicità quel senso artistico che molti snobbano, considerandola “arte di ripiego” e divenendo fotografo ed editore riesce a muoversi all’interno dell’industria occidentale con una libertà, creativa e non, sempre più difficile da raggiungere, riuscendo a fare dell’underground, specialmente con la sua rivista, qualcosa che possa arrivare a tutti e che diviene iconico.

Per cui andate a Milano a vedere le opere di quest’artista e magari fate un salto anche al suo sito, ne rimarrete affascinati.


29 ART IN PROGRESS

Via San Vittore, 13, Milano (MI)




Immagini tramite vivimilano.corriere.it

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Tra qualche giorno avrà termine la mostra su Guy Bourdin ad Arlès. È certo che molti, leggendo questo articolo di una testata italiana, si chiederanno “Bhe si, grazie dell’informazione, ma come faccio ad andare in Provenza in due giorni?!”. Perdonatemi! Me lo chiedo anche io. Tuttavia la mostra, curata da Shelley Verthime, potrebbe essere un ottimo pretesto per parlare di quest’artista: fotografo di moda che ha rivoluzionato il modo stesso di rappresentare le donne all’interno di un’industria fortemente selezionata, in un contesto estremamente differente da quello attuale e che anzi, oggi, appare lo standard principale.

Bourdin ha saputo mettere nelle sue foto innovazione, creatività e colori con contrasti forti, caricando tutto con un senso di angoscia ed effettuando una vera e propria decostruzione -tutte le sue foto si basano sulla rottura metaforica e reale dei corpi delle modelle- del mondo della moda.

   Bourdin nasce nel 1928 a Parigi, in una città quindi dal forte fermento artistico. La sua vita però sarà caratterizzata da un rapporto conflittuale con le donne, dovuto, probabilmente, innanzitutto all’abbandono all’età di un anno da parte della madre e dal suicidio di sua moglie nel 1971.

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Si dice del fotografo che avesse dei comportamenti piuttosto crudeli nei confronti delle sue modelle: atteggiamento che forse si può rivedere anche nelle sue foto, dove il soggetto scompare e diviene una sorta di manichino assemblato. Il corpo non è più rappresentato nella sua interezza, ma viene dato spazio alle sue parti: una vera e propria sineddoche della modella. Forse è proprio il rapporto “conflittuale” con le figure femminili più importanti della sua 

vita ad emergere nelle sue opere.

Le donne di Bourdin si caricano di un eros dirompente e spezzato, dando peso a corpi senza anima, ma carichi di colore: la plasticità delle forme femminili emerge dalle immagini allargando così i confini –letteralmente e metaforicamente- della fotografia di moda e pubblicitaria.

 

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   Dopo la sua morte sono poche, in realtà, le opere dell’artista ad essere state conservate: Bourdin non amava pubblicizzarsi e dunque molti lavori sono andati persi nel corso della sua vita, soprattutto a causa dell’autore stesso, che addirittura ne voleva la distruzione dopo la sua morte. La sua prima mostra è infatti una retrospettiva tenutasi a Londra, al Victoria & Albert Museum, nel 2003 e la sua prima raccolta è del 2001, ad oper del suo unico figlio Samuel, Exhibit A.

   Con le sue opere Bourdin ha influenzato il lavoro di numerosi artisti e rivoluzionato il modo di fotografare la moda, creando, si può dire, un cambiamento all’interno dello stesso immaginario comune e dando, probabilmente a sua insaputa, un nuovo volto alla moda stessa che ha caratterizzato e costruito l’immagine mondiale di testate come Vogue.

 

Inmmagini: Guy Bourdin - Charles Jourdan, spring 1979

© THE GUY BOURDIN ESTATE, 2019 /COURTESY OF ART AND COMMERCE.

 

   Cattura

TerraProject è un collettivo italiano, nato a Firenze nel 2006. L’obiettivo del progetto, portato avanti da quattro fotografi – Michele Borzoni, Simone Donati, Pietro Paolini e Rocco Rorandelli –, è una ricerca fotografica di stampo documentaristico, incentrata su tematiche geopolitiche e sociali.

Tra i primi collettivi fotografici a nascere in Italia, si propone, non solo come una piattaforma di promozione dei lavori dei singoli, ma anche come base per lo sviluppo di una nuova tecnica sperimentale: TerraProject non è solo una collaborazione, ma è anche il punto di partenza da cui creare, attraverso questa stessa collaborazione, uno sguardo multiplo favorito dalla presenza di più punti di vista che si vengono incontro; quattro membri in funzione di un quinto, un vero e proprio autore multiplo, come essi stessi lo chiamano. I fotografi, quindi, lavorano insieme su progetti collettivi, parallelamente ai propri individuali.

   Nel corso di questi anni, le opere del collettivo hanno, inoltre, ottenuto numerosi riconoscimenti a livello mondiale, in particolare il World Press Photo nel 2010 e nel 2012.

I membri.

Michele Borzoni (1979) si diploma nel 2006 all’International Center of Photography di New York. Ottiene nel 2010 il riconoscimento, presso il World Press Photo, Singles, People in the news.wp-13

Simone Donati (1977) ha frequentato il corso triennale di fotografia alla Fondazione Marangoni di Firenze. Dopo averlo concluso nel 2005, effettua presso Magnum Photos di New York uno stage, dopo il quale comincia a lavorare come fotografo professionista.

terra project 4

Pietro Paolini (1981) frequenta anche lui il corso triennale di fotografia presso la Fondazione Maragoni di Firenze. Interessato al Sud America sarà proprio grazie ad esso che nel 2012 riuscirà ad ottenere il premio World Press Photo per la categoria Daily Life nel 2012.

terra project 2

Rocco Rorandelli (1973), infine, intraprende la carriera fotografica dopo aver svolto il dottorato in biologia, nel 2006. Da allora realizza numerosi reportage in tutto il mondo ottenendo svariati riconoscimenti.

terra project 3

Le immagini presenti in questo articolo sono dei fotografi sopra citati , lagallery completa può esser visionata sul sito Terreproject.net

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